Il settore tessile è ancora sotto alle macerie del Rana Plaza
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Il settore tessile è ancora sotto alle macerie del Rana Plaza

Era il 24 aprile del 2013 quando a Dacca, capitale del Bangladesh, crollò il Rana Plaza, un vecchio palazzo di nove piani, causando 1.132 vittime. Una parte dei quasi tremila impiegati (principalmente donne) lavorava nei laboratori tessili dell’edificio.

[testo a cura di Stefano Artusi]

 

La più grande tragedia della storia industriale del Paese contribuì ad accendere i riflettori sullo sfruttamento della manodopera a basso costo nell’industria tessile. Ora c’è maggiore attenzione, soprattutto da parte dei consumatori, nei confronti della sostenibilità dei prodotti, sia quella dei diritti dei lavoratori che dell’ambiente (basti ricordare che l’industria tessile è la seconda più inquinante del mondo). Nei tre anni post-Rana Plaza, le aziende tessili sono state coinvolte in campagne di informazione sul loro sistema di produzione, sulle condizioni di lavoro delle aziende (che lavorano per i grandi marchi in subappalto) nei paesi asiatici, dall’India alla Thailandia passando per il Bangladesh e le Filippine.

Tuttavia, nonostante la maggiore attenzione, i rapporti ufficiali segnalano che la situazione non è cambiata granché: come mostrato nel programma di France2, ‘Inditex allo scoperto‘, è ancora all’ordine del giorno il lavoro minorile, lo sfruttamento dei lavoratori (12-14 ore di lavoro al giorno con straordinari obbligatori), l’impiego di lavoratori senza contratto e in condizioni di privazione della libertà, spesso in luoghi di lavoro insalubri. In India continua la pratica del ‘sumangali‘, lo sfruttamento di bambine e giovani donne che vengono schiavizzate tramite apprendistati di tre anni e la promessa di ricevere una dote con parte dei loro salari.

Un sistema, quello dell’industria tessile, che si regge sullo sfruttamento del lavoro. Tutti i principali marchi sono coinvolti: Gap, Primark, C & A, Tchibo, Hugo Boss, Ermenegildo Zegna, Benetton, Avanti, Armani, Louis Vuitton, Prada, Mizuno, Arcadia, Cotton Group, Adidas, Esprit, New Look, Abercrombie, Antigua, Nike, Puma, The North Face, Li-Ning, Reebok e tanti altri.

In Bangladesh fra dicembre 2018 e gennaio di quest’anno c’è stata una mobilitazione generale dei quasi 4,5 milioni di lavoratori del tessile che ha finalmente portato ad un aumento salariale. Lo spread salariale rispetto alla soglia anti-sfruttamento elaborata da Asia Floor Wage è ancora molto alto: 18.000 taka (ma solo per chi ha l’anzianità, agli altri spettano retribuzioni di 8.000) contro il 37.661 taka necessari per superare la soglia di sussistenza. Considerando che mille taka sono circa dieci euro, parliamo di 180-190 euro di stipendio mensile.

Per sensibilizzare l’opinione pubblica occidentale su questo fatto, a fine gennaio è stata indetta una settimana di solidarietà globale per chiedere salari e condizioni di lavoro dignitose. Le richieste di aumento salariale fatte dai sindacati e dai lavoratori erano già state ignorate nel 2016 dal governo del Bangladesh. Il clima repressivo nei confronti dei lavoratori e delle organizzazioni sindacali, contro il diritto di manifestare e scioperare, è proseguito a suon di arresti e licenziamenti mirati.

L’unica risposta concreta data dopo Rana Plaza è stato un programma quinquennale destinato alle aziende tessili bengalesi per salvaguardare la sicurezza delle fabbriche e prevenire gli incendi.

Rana Plaza è stata solo la più eclatante di una serie di tragedie. Nel 2012, un incendio alla fabbrica Tazreen Fashion causò la morte di 113 persone. Nel 2005 i morti furono 74 a causa del crollo dello stabilimento Spectrum.

L’Accordo nel 2018 è diventato un Accordo di Transizione e prevede anche risarcimenti per gli infortuni sul lavoro, riconoscendo il valore del sindacato. Questo accordo non è stato ancora sottoscritto da un numero consistente di aziende e il suo futuro rimane incerto, sono troppe le pressioni sul governo da parte del settore, che vale 30 miliardi di $ l’anno e l’85% dell’export. Il Bangladesh nella produzione di vestiario è secondo solo alla Cina.

Anche per l’Italia, il Bangladesh è un paese strategico per il tessile: solo nel 2015 la Coldiretti stimava che l’import di prodotti tessili dal paese valesse 1,18 miliardi di euro.

Come scrivevamo qui (http://www.giustapaga.it/caporalato-industriale-il-tessile-come-nel-bangladesh/) alcuni mesi fa, lo sfruttamento nel tessile non è prerogativa solo dei paesi in via di sviluppo. La preoccupazione dei lavoratori dell’abbigliamento è in crescita: nella settimana di solidarietà coi lavoratori bengalesi si sono svolte manifestazioni davanti alle ambasciate e ai consolati del Bangladesh in alcune capitali europee fino a New York e Washington.

In Italia gli operai del tessile di Prato hanno manifestato sabato 26 gennaio davanti al Comune.

I lavoratori della S.I. Cobas hanno rotto il silenzio sullo sfruttamento nel tessile denunciando le lettere disciplinari volte a scoraggiare chi lotta contro gli orari di lavoro insostenibili (12-14 ore al giorno per sette giorni a settimana) che nella provincia di Prato non sono solo casi isolati, contro l’espulsione che incombe sugli operai senza documenti, trovati durante un controllo di metà gennaio, per i quali chiedono permessi speciali di soggiorno.

Lo stesso giorno, sempre con S.I. Cobas, a Firenze hanno manifestato i lavoratori di Zara, per protestare contro lo sfruttamento e la repressione che subiscono dalla multinazionale della moda.

Davide Serafin

Di Alessandria. Ha scritto gli ebook '80 euro di Ingiustizia Sociale' – 2016, V come 'Voucher – La nuova frontiera del precariato' – 2016 e 'Il Volo dei Gufi' - 2018, raccolta degli articoli scritti per i Quaderni di Possibile negli anni (2015-2018) - www.ilvolodeigufi.com - www,giustapaga.it - twitter: @yes_political
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